martedì 18 agosto 2009

degli incontri e delle attese (1 di ...)

Sulle prime non ci pensavo, ma la città quella sera era fantastica.
Fredda, come un animale ferito che cerca riparo, e sferzata da possenti raffiche di vento che sembravano voler sradicare ogni più salda struttura.
Camminavo rasente il muro che costeggiava un viale alberato e con la testa che mi scoppiava per qualche bicchiere di vino bevuto a casa di amici.
D’altronde erano giorni bui perciò non curavo affatto il mio mal d’inverno e non ponevo la mia malattia immaginaria in perfetto bilanciamento con i brividi di freddo che ogni tanto mi scuotevano.
Certo, era anche vero che continuavo a vestire piuttosto leggero per il periodo, ma non ho mai fatto caso al cambio delle stagioni. Ora, unico colpevole, non avevo motivo di lamentarmi.
Sentì il telefonino vibrare nella tasca sinistra dei jeans, ma non avevo voglia di tirar fuori le mani dalle tasche del cappotto, così lasciai perdere.
Se fosse importante, mi ripetevo sempre in quei casi, richiameranno.
Probabilmente era "importante" e il telefonino riprese a scuotersi pochi secondi dopo aver smesso di vibrare.
‘Dannazione’ pensai ‘sono solo a tre isolati da casa, non possono aspettare?’
Evidentemente no.
Così mi fermai e presi il telefonino.
Risposi meccanicamente senza nemmeno guardare sul display chi diavolo mi cercasse con tale inopportuna furia alle 2.45 di un gelido mattino di gennaio.
Maledizione!
Non avevo affatto voglia di far due cose contemporaneamente: voler tornare a casa e pensare alle risposte da dare alle domande che mi venivano poste nella telefonata. Cercai di farlo.
"No. Credo che al momento correre tale rischio sia opportuno. E ciò per un semplice motivo, almeno a mio modo di vedere le cose: se attendiamo che qualcun altro venga a stuzzicarci, beh, possiamo aspettare tutta una vita. Ti ricordo che politicamente sei poco più di un fantasma, quindi non credo tu abbia molte chances di rifarti".
Altre parole che non condividevano la mia risposta.
"Allora non capisco perché tu debba chiamarmi alle tre del mattino per avere risposte a domande che hai già superato con le tue assurde convinzioni e non capisco perché, sempre a quest’ora, tu pretenda da me risposte che conoscevi".
Facendo l’offeso, ho sempre pensato, si raggiunge l’obiettivo.
"No, non mi sono offeso. Volevo solo farti comprendere l’irragionevolezza dei modi, dei tempi e dei termini di questa telefonata. Ritengo che ci possano essere altri momenti per discuterne".
Ancora vociare vano.
"Si, ho notato che a tavola eri poco presente nelle conversazioni, ma ti assicuro che non ti sei perso nulla. Il sottosegretario ha dimostrato ancora una volta di essere un bravo politico, avresti potuto trarne vantaggio, invece ti arrovelli su qualcosa che ormai è data e definita. Al momento i margini di rilancio, a mio avviso, sono pochissimi, quindi per me l’unica soluzione possibile per consentire il tuo galleggiamento è venir fuori dalla situazione nella maniera di cui abbiamo già discusso ieri a pranzo: magari all’inizio non sarai compreso, non sarai capito, ma è successo così tante volte nel nostro paese, poi vedrai che daranno il tuo nome ad una strada periferica della tua città d’origine".
Poi il finale allegro andante, quello che vale tutta la telefonata.
"Certo che avranno intercettato questa chiamata, chi ti credi di essere...".
Durante la conversazione ero rimasto dov’ero, non avevo mosso altri passi verso il portone del palazzo dove abitavo.
Adesso quei tre isolati mi sembravano un’infinità di chilometri che pesavano sulle mie gambe come macigni.
Avevo imparato due lezioni:
1) il mio lavoro non è così avvincente come molti credono;
2) il telefonino va spento ad una certa ora.
Ma, in questo modo, avrei violato due norme del codice di comportamento:
1) bisogna amare il ruolo cui si è incaricati;
2) bisogna essere sempre reperibili.
Un vero irresponsabile.
(certo, i diritti dovrebbero essere riservati, ma di questi tempi...e poi, non è che sia un granchè)

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